giovedì

Città italiane, brusca battuta d’arresto nelle politiche per la sostenibilità urbana

Lo dicono i dati della XVI edizione di Ecosistema Urbano, il Rapporto annuale di Legambiente, Sole 24 Ore e Ambiente Italia
Verbania vince la classifica della qualità ambientale davanti a Belluno e Parma . Male il Sud, malissimo la Sicilia. Battuta d’arresto nelle politiche ambientali urbane e una scarsa agilità nello sfruttare le opportunità, anche economiche, offerte da una più attenta e lungimirante gestione dei rifiuti, della mobilità, dell’energia. E’ scarsamente attrattivo il trasporto pubblico (gli abitanti dei capoluoghi, in media, fanno solo un viaggio e mezzo a settimana su autobus, tram e metropolitane),
le isole pedonali sono praticamente immutate da un anno all’altro (0,35 mq per abitante),
le zone a traffico limitato si sono rimpicciolite (da 2,38 mq per abitante dello scorso anno ai 2,08 attuali),
la congestione da quattroruote è identica (circa 64 auto ogni 100 abitanti),
mentre sale solo dell’1% l’efficienza della depurazione (dall’88% all’89%),
e il parametro migliore alla fine è quello della raccolta differenziata: un +2,79% che però lascia l’insieme delle città ferme al 27,19%, lontano, quindi, dal 50% che andrebbe assicurato entro il 2009.
Leste nell’avviare un ciclo virtuoso sono state anche Belluno, Rovigo e Treviso, (tutte sopra il 50% di raccolta differenziata, il target da conquistare entro la fine di quest’anno).
Ecco la situazione delle altre città venete:

Belluno è 2° (1° nel 2008),

Verona 52° (75° nel 2008),

Venezia 14° (10°),

Padova 54° (64°),

Rovigo 58° (58°),

Vicenza 79° (76°),

Treviso 78° (71°).
“Non investire nella sostenibilità urbana produce un doppio danno, sia locale che globale - ha sottolineato Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente – nelle città infatti si concentrano le più alte percentuali delle emissioni inquinanti, dei consumi energetici e degli spostamenti: migliorando l’ecosistema urbano, quindi, si offre un ambiente migliore agli abitanti e, nello stesso tempo, si contribuisce alla riduzione dei gas climalteranti che stanno facendo salire la temperatura del pianeta”.

BROCCOLI? BUONI, DI STAGIONE E ANTI-TUMORE

Pubblicata il 02/11/09 da informacittadini Che broccoli, cavolfiori e cavolini di Bruxelles abbiano proprietà anticancerogene, per i tumori all'intestino, e' cosa nota e confermata da due studi dell'Istituto britannico per l'alimentazione e dalla Universita' John Hopkins di Baltimora (Usa). Questi studi rilevano che il consumo di un chilogrammo a settimana dei suddetti prodotti diminuisce del 50% il rischio di tumore all'intestino.Ma la novità e' che la assunzione di germogli di broccoli protegge dal cancro al seno. I germogli contengono, in misura 100 volte superiore alla pianta matura, isotiocianato (estero dell'acido isotiocianico), dal caratteristico odore di senape, che ha una azione "disintossicante" delle cellule. L'esperimento e' stato fatto sui ratti, trattati con l'estratto di germogli.

 
Ma anche la pianta matura dei broccoli, contenente indolo-3-carbinolo, ha effetti inibitori del cancro al seno. Una attività e informativa consentirebbe ai consumatori di indirizzare le proprie scelte alimentari verso questi prodotti, che, oltretutto, sonoampiamente diffusi nel nostro Paese.

MC VERONA, DIOGENE: IL GRUPPO DI ACQUISTO SOLIDALE...COI VERONESI

Pubblicata il 02/11/09 da Informacittadini
Si chiama Diogene il Gruppo di acquisto solidale voluto dal Movimento consumatori di Verona. Il Gas legato all'associazione nata per difendere i diritti dei cittadini consumatori ed utenti da abusi e disservizi, è aperto a tutti. Per aderire è sufficiente versare una quota associativa di due euro e iscriversi al Movimento Consumatori, la tessera è di 15 euro per diventare soci simpatizzanti. Diogene privilegia i prodotti biologici, ecologici ed equo solidali. Basilare è che tutto venga realizzato nel rispetto dell'ambiente e della dignità del lavoro dell'uomo e della donna.

Lo scopo principale non è quindi di acquistare prodotti a basso costo, ma cercare prodotti di qualità che rispondono ai criteri di sostenibilità dell'ambiente. Con il Gas è possibile avere un livello dei prezzi equo sia per i consumatori che per i produttori. Ogni sette giorni o ogni due settimane, a seconda del genere di prodotto, vengono raccolti gli ordini degli iscritti e trasmessi ai produttori. La cassetta di frutta e verdura è locale, biologica e si lega alla stagionalità del prodotto. Insalata, pomodori, cipolle o quel che è di stagione proviene dalla Società cooperativa Agricola Cà Magre di Isola della Scala che ogni giovedì mattina è presente al mercato biologico di piazza Isolo. Solo alcuni frutti arrivano dalle terre del sud. Ogni prodotto è certificato Icea. La distribuzione di quanto si ordina avviene nella sede di Legambiente Verona in via Bertoni, ogni giovedì dalle 18 alle 19. Per potere dare modo ai cittadini di valutare i prodotti l'iscrizione al Gas Diogene è richiesta dopo il terzo acquisto. Inoltre i prezzi fissati dal produttore rimangono tali. «La cassetta di frutta e verdura settimanale è un sistema di vendita diretta interessante sia per l'agricoltore che per il consumatore», fanno sapere dalla sede del Movimento consumatori di Verona, «permette di risparmiare, evita le grandi catene alimentari con tutti i costi aggiuntivi che ne conseguono. La gestione diventa quindi economica e ci riporta a mangiare ciò che la natura dispone nel corso della stagione».

Informazioni si possono avere allo 045.595210 (dalle 9 alle 13) o inviando una mail all'indirizzo: diogene.verona sportellodelconsumatore.com

lunedì

Riforma Gelmini dell’Università in anteprima: rinnovamento a costo zero o macelleria sociale?


Riforma Gelmini dell’Università in anteprima: rinnovamento a costo zero o macelleria sociale?
Il testo del disegno di legge delega che riforma profondamente l’Università italiana sarà portato dal Ministro Mariastella Gelmini nell’imminente prossimo consiglio dei ministri per andare quindi in Parlamento. Non se ne parla affatto perché sta bene un po’ a tutti, governo, opposizione e perfino alla conferenza dei Rettori.
di Gennaro Carotenuto
Ma è bene che se ne discuta nel paese perché concerne il principale strumento che ha l’Italia per restare nella pattuglia dei paesi più avanzati. Affossato (o affossatosi o era semplicemente un miraggio) il movimento dell’Onda, il dibattito nelle università e nel paese è stato in questi mesi azzerato per trasferirsi in ristrettissime commissioni vicine al ministro.
Ma il progetto Gelmini rappresenta un cambio paradigmatico della nostra università. Questa diviene una sorta di mostro unico al mondo, né privata né pubblica, ovvero resta pubblica ma il controllo viene assegnato ai privati. Inoltre, come già successo per la scuola, minaccia di bruciare un’intera generazione di giovani ricercatori. Giornalismo partecipativo ha letto in anteprima il testo del disegno di legge e lo analizza punto per punto.
L’Università come parafulmine
La prima cosa che salta all’occhio è lo specchietto per le allodole di un “articolo uno” che dà sei mesi di tempo alle Università per dotarsi di codici etici e norme contro il conflitto di interessi. L’Università intera sarebbe una Cayenna di corruttele e sprechi ma Mariastella Gelmini è disposta a contare fino a tre per farci uscire in fila indiana con le mani dietro la nuca prima di bombardare. È con questo argomento che tra qualche giorno verrà presentata la riforma all’opinione pubblica: finalmente il governo mette fine alle porcherie dell’Università. Sarà vero?
La sostanza è che si parte con un esercizio retorico e propagandistico per il quale il governo di Silvio Berlusconi (che di conflitto d’interessi potrebbe dar lezioni a chiunque) individua in un generalizzato familismo il principale problema del sistema di educazione superiore nel paese e promette di risolverlo con la spada come con i rifiuti in Campania. È una maniera come un’altra per evitare di far discutere della questione principale rappresentata da un finanziamento ordinario largamente al di sotto delle medie OCSE e ulteriormente e pesantemente ribassato da questo governo per gli anni a venire.
La Gelmini e con lei i media al suo servizio, faranno un gran parlare di merito e di valutazione (molto bene) ma eluderanno il problema che senza risorse l’università italiana continuerà a non offrire opportunità ai meritevoli e non metterà i migliori in condizione di lavorare. Il fatto che nelle more di tale penuria facciano carriera alcuni immeritevoli o impresentabili è un problema reale. Ma piazzarlo come incipit a quella che pretende di essere una riforma universitaria è una mossa propagandistica offensiva nei confronti di chi ha vinto concorsi universitari senza essere figlio o figlioccio di nessuno e che con difficoltà continua a far ricerca e a formare le future generazioni. È evidente che il far credere (ben supportato da giornali come “il Corriere della Sera”) che l’Università sia una nuova Gomorra, per poterne quindi fare strame col consenso dei media e dell’opinione pubblica, è una manovra uguale alla reintroduzione del grembiule o del voto in condotta nelle scuole: parlar d’altro, delegittimare, per far passare nel silenzio le parti più vergognose di una riforma che pure nelle bozze non appare tutta da buttare.
Organi decisionali: l’università in mano ai commercialisti
Il punto chiave in negativo è che la nuova Università di Mariastella Gelmini e di Silvio Berlusconi sarà governata da esterni di nomina regia. Infatti ogni Consiglio di Amministrazione degli atenei pubblici avrà solo una minoranza di rappresentanti eletti tra chi nell’Università vive e lavora, tra questi il Rettore. Il CdA sarà invece governato da una maggioranza di esterni che per legge non dovranno avere nulla a che vedere con l’Università stessa e invece, si presume, molto a che vedere col governo.
Come ha titolato giorni fa “Il Secolo XIX” di Genova, nelle parole del filosofo del diritto Mauro Barberis, “le Università nelle mani dei commercialisti”. E sarà proprio così, la maggioranza del consiglio di amministrazione delle Università pubbliche italiane sarà dominata da persone completamente esterne. Supponiamo che ci sarà un rappresentante della Confindustria, quello della locale Cassa di Risparmio, magari quello della Curia, dello sponsor della squadra di calcio e perché no, dei Carabinieri o della Questura o perfino dell’Amministrazione comunale o regionale e della Corporazione de’ Calzaiuoli. Ancor più misterioso è chi saranno i consiglieri stranieri previsti dalla legge e chi li selezionerà e designerà. Quel che è certo è che non saranno prestigiosi cattedratici chiamati a far crescere i nostri atenei perché anche loro dovranno essere esterni al mondo dello studio e della ricerca. Saranno allora forse funzionari del Fondo Monetario Internazionale, quelli che per cinquant’anni hanno consigliato i paesi del Sud del mondo di tagliare i fondi all’educazione? L’importante, è scritto nero su bianco, è che tali individui, italiani e stranieri, abbiano competenze “prevalentemente gestionali”. Come i manager delle ASL che governano la nostra salute non devono aver giurato fedeltà a Ippocrate e nulla devono sapere di fisica o biotecnologie e men che meno di filosofia e non sia mai che sappiano di diritto costituzionale. Quel che importa sono le competenze gestionali.
Quest’ultimo dettaglio fa capire che da domani essere un luminare che abbia competenze prevalentemente nella propria disciplina sarà un titolo di demerito che porterà a una patente di inabilità a governare l’Università dove si lavora. Che le caste baronali abbiano spesso dato pessima prova di sé è un fatto ma i rappresentanti di interessi privati che vengono a gestire soldi pubblici senza essere eletti da nessuno ma nominati che garanzie offrono?
Università ancora pubblica ma…
Non sfugge che l’Università della Gelmini resti pubblica. Probabilmente perché, dopo alacri consultazioni, privati che se le comprassero proprio non se ne sono trovati. Colpisce infatti che in pochi mesi l’enfasi sia passata dalle Fondazioni (ovvero la privatizzazione di fatto prevista fino a pochi mesi fa) al mettere nelle mani dei privati Università ancora pubbliche.
L’Università resta pubblica nel senso che funzionerà ancora con soldi pubblici, anche se sempre meno, ma sarà completamente controllata dai privati. Cosa vengano a fare i privati è facile da dirsi nei proclami: cultura aziendalista, efficienza, rapporto con l’impresa, l’unica “I” superstite visto che d’inglese continuiamo a masticarne poco e di Internet semmai saremmo costretti a parlarne per le voglie di censurarla come in Cina. In realtà si possono pensare anche motivazioni ancor meno cristalline. Preso il controllo dei Consigli d’Amministrazione di istituzioni pubbliche è possibile che non trovino di meglio che fare da apripista ad una cartolarizzazione dell’importante patrimonio immobiliare delle Università che messe alle strette e senza soldi saranno indotte a vendere i gioielli di famiglia?
E di nuovo: chi saranno materialmente i nuovi consiglieri d’amministrazione esterni? Chi saranno le nuove figure amministrative aliene dall’Università ma inventate per l’occasione e innestate in un corpo che di certo non è sano ma che potrebbe morire di questa cura da cavallo? Qualcuno avanza già ipotesi. In Italia ci sono a spasso centinaia di manager fino a ieri strapagati e fatti fuori dalla crisi. Son proprio loro ad avere competenze “prevalentemente gestionali” dimostrate in mille Alitalia. Parte di questa disoccupazione pregiata (e con buone entrature politiche ed economiche) potrebbe riciclarsi nell’Università facendo a prezzi salatissimi quello che fino a oggi i docenti universitari hanno fatto nel loro normale lavoro.
Non c’è bisogno di far tanti discorsi: per il governo le università e solo le università non sarebbero in grado di gestire se stesse. Non lo sarebbero per antonomasia. Sarebbe interessante se il governo provasse a far lo stesso (è un esempio) con lo Stato Maggiore dell’Esercito lasciando i generali in minoranza e affiancandoli con esperti esterni. In fondo basterebbe che il “Corriere della Sera” scrivesse tre o quattro articoli, magari un editoriale di Francesco Giavazzi o una puntuta inchiesta di Gian Antonio Stella su quel che da sempre si dice che sparisca dalle furerie delle caserme, per convincere l’opinione pubblica che i generali proprio non sanno badare a se stessi.
Per far posto e separare anche fisicamente il nuovo Consiglio d’amministrazione dominato da esterni nominati dal Ministro (o almeno nulla si dice se non che non saranno cariche elettive) che sarà il nuovo cuore della vita universitaria, dovranno sparire le storiche Facoltà per essere sostituite da un più ampio raggruppamento, le “scuole” alla statunitense con funzioni molto limitate di gestione di strutture comuni. Saranno infatti i dipartimenti, rafforzati nelle dimensioni, ma non nei fondi disponibili, a non doversi occupare più solo della ricerca ma a prendere in mano anche l’organizzazione dei singoli corsi di laurea. Per carità nessuno sostiene che non sia utile cambiare, ma almeno sulla carta sembra una rivoluzione che serve soprattutto a verticalizzare ancora di più la gestione delle università.
L’abolizione delle Facoltà come corpo intermedio di potere, sostituite da scuole che delegano la loro funzione essenziale ai dipartimenti, aumenta infatti a dismisura il potere di consigli di amministrazione calati dall’alto e da fuori.
Inoltre il testo fa un gran parlare di fusioni, accorpamenti, federazioni tra Università. Vedremo cosa resterà nella pratica e quante saranno realmente queste fusioni ma è rilevante che ciò rappresenta un definitivo cambio di paradigma tra l’Università diffusa nel territorio, le famose 200 università volute da Confindustria fino a pochi anni fa, e l’esigenza di razionalizzare. Confindustria, che le sedi distaccate e la proliferazione dei corsi ha preteso in passato, a volte senza stare ai patti e sempre con denari dello Stato, adesso ne gestirà la chiusura. Il lupo a guardia delle pecore.
Stato giuridico dei docenti universitari
La trasformazione più importante è una parziale caduta della separatezza tra le tre fasce di Professore ordinario, Professore associato e ricercatore (o Professore aggregato come sempre più spesso verrà chiamato). La carriera diviene unica, anche se continua ad essere divisa in tre fasce. Viene introdotto un meccanismo di abilitazione scientifica nazionale (che vedremo più avanti nel dettaglio) ma poi i passaggi che decidono gli avanzamenti di carriera vengono gestiti in maniera ancora più accentrata dalle sedi eliminando quasi del tutto i concorsi.
Se l’Articolo 97 della Costituzione prescrive che "nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso" questo finora si era inteso in maniera tale da prevedere tre concorsi per i tre ruoli. Da domani si accederà una sola volta per concorso e quindi si progredirà tra i tre ruoli se si risponderà a criteri generali di valutazione che comportamento il conseguimento dell’abilitazione scientifica ma soprattutto se graditi alla sede dove già si lavora. Già oggi trasferirsi in Italia da una sede ad un’altra è molto difficile. Con la riforma Gelmini ci si lega in maniera sempre più indissolubile alla sede dove ci si è strutturati che gestirà il 90% delle progressioni di carriera. In teoria non è una cattiva riforma se non si coniugasse con una tradizione di pessima gestione del potere in epoca di autonomia, che la riforma rafforza e non intacca, e con la cronica e accentuata mancanza di risorse. La cooptazione può essere un buon metodo se integrata in un sistema di controlli, contrappesi e penalizzazioni per chi coopta male. Qui l’unico contrappeso palpabile è a monte, l’abilitazione, ma a valle non ci sono né controlli né penalizzazioni rilevanti per chi continuerà, potendo (potrà poco, ma è altro tema), a cooptar male.
Il ruolo unico su tre fasce, ordinario, associato e ricercatore (quest’ultimo sarà espressamente terza fascia docente) che restano e anzi sembrano irrigidirsi nella volontà del ristretto gruppo di consiglieri del Ministro, darà gran spazio alla chiamata diretta o per “chiara fama”. In pratica le sedi dovranno tenere un concorso solo se non sarà disponibile un candidato interno con abilitazione scientifica alla fascia superiore o qualcuno da chiamare per chiara fama. Altrimenti il candidato interno progredirà de plano e senza concorso in un giorno x di un anno y quando chi è al di sopra di lui avrà deciso che sarà venuto il momento. Ovviamente chi ha la speranza di diventare un giorno candidato interno non avrà alcun interesse ad andare a ficcare il naso nei fatti e nei concorsi altrui.
I concorsi da associato e ordinario saranno infatti pochissimi e rigidamente controllati dalla sede, che avrà la maggioranza nella commissione con tre ordinari locali su cinque membri, e si terranno solo quando non ci sarà espressamente un candidato interno. Di fatto i migliori tra quanti avranno conseguito l’abilitazione scientifica, se non avranno una sede disposta a chiamarli, difficilmente progrediranno nella carriera o entreranno in ruolo se esterni, mentre i locali, pur conseguendo un’idoneità striminzita, avanzeranno immediatamente (forse, vedremo) perché così potrà decidere la sede.
Positiva (ricordando che tutto potrà ancora essere stravolto) è invece la riduzione data dall’unicità della carriera della sequenza di conferme necessarie. In pratica oggi uno studioso passa nove anni della sua carriera in una sorta di limbo (ricercatore non confermato, associato non confermato, straordinario) nella quale non è ancora pienamente di ruolo. Da domani il periodo di conferma, portato a quattro anni, accompagnerà solo l’ingresso in ruolo. Quindi chi ha ottenuto la conferma come ricercatore (il caso più tipico) all’avanzamento di carriera diverrà subito pienamente associato o pienamente ordinario. Ad un fatto positivo ne fa subito eco uno negativo. Gli attuali ricercatori e associati non confermati non potranno concorrere per tre anni dall’entrata in vigore della legge per ottenere l’abilitazione scientifica, ciò indipendentemente dal loro valore. Una norma cervellotica e ingiusta che nasconde una delle stelle polari della riforma: senza soldi più si rallentano le carriere fino ad arrivare ad un blocco delle assunzioni mascherato e meglio è.
Abilitazione scientifica nazionale e progressione di carriera
Il pezzo forte è l’istituzione di un’abilitazione scientifica nazionale che si coniuga con la detta aumentata discrezionalità delle sedi nel chiamare gli idonei. Ciò appare una soluzione di compromesso tra chi, come Valentina Aprea del PdL o il citato Giavazzi, volevano la totale abolizione dei concorsi e chi riteneva che solo un concorso nazionale, limitando le prerogative nepotistiche delle sedi locali esaltate dall’autonomia, potesse garantire l’emersione del merito.
L’abilitazione scientifica si potrà ottenere per concorso tutti gli anni a settembre e sarà gestita, disciplina per disciplina, da una commissione di otto professori ordinari sorteggiati da una lista di 24 eletti tra tutti gli ordinari della disciplina. Per permettere a tutte le discipline di sostenere tale organizzazione saranno ridisegnati e accorpati i settori scientifici minori in modo da prevedere non meno di 50 professori ordinari per ogni raggruppamento. Agli otto sorteggiati dai 24 eletti si affiancherà un docente straniero. Si ripropone di nuovo la vergogna già paventata dall’ex ministro Fabio Mussi che non riusciva a pensare nulla di meglio che far fare i concorsi a commissari stranieri. Le Università di un grande paese come l’Italia hanno bisogno di un professore straniero che faccia da arbitro? Chi sia questo, chi lo nomina e perché mai dovrebbe mettere freno a pratiche indecenti non è dato sapere. Di nuovo inoltre, perché questa pratica va bene solo per l’università? Visto il degrado etico del paese nel calcio potremmo moralizzare chiamando arbitri dall’estero, potremmo importare macchinisti per far arrivare i treni in orario e potremmo perfino chiamare ministri stranieri al posto dei nostri.
Detto ciò l’abilitazione scientifica nazionale potrebbe essere anche una buona o ottima idea (impedendo che venga ottenuta da chi è scandalosamente immeritevole) se non fosse accompagnata da un sistema che di fatto impedisce ai migliori di essere chiamati nelle sedi preferite, o essere chiamati affatto, e delega completamente alle sedi locali la possibilità di selezionare e chiamare effettivamente.
D’altra parte viene tenuto in piedi, ed appare accettabile, il meccanismo già presentato da tempo per la nuova progressione stipendiale. Ogni due anni tutti gli incardinati saranno tenuti a presentare una relazione scientifica. Solo se approvata (speriamo che non sarà solo pro forma) si potrà ottenere lo scatto stipendiale, si potrà presentare domanda per ottenere l’abilitazione scientifica nel ruolo superiore o, se già ordinari, essere eleggibili alle commissioni di concorso.
Per la nuova legge in ogni singola università non potranno esserci meno del 40% di ricercatori e non più del 28% di ordinari. È un numero arbitrario e ciò significa che per molti anni quasi nessuna università potrà permettersi di chiamare un posto da ordinario, con abilitazione scientifica o no, meritevole o raccomandato che sia. La tabella di Rossi, che è semplicemente una proposta dalla quale il governo desume solo le percentuali, non i nuovi posti a concorso bloccati dal turn-over, supporrebbe un percorso di pensionamento di un paio di migliaia di ordinari che farebbero spazio a 5-6.000 nuovi ingressi in ruolo e poche progressioni.
In realtà sono numeri aleatori. Per pensionare rapidamente 1.500-2.000 ordinari, il che rimetterebbe in moto il sistema a costo zero (un ordinario a fine carriera guadagna il triplo o il quadruplo di un ricercatore appena entrato) bisognerebbe davvero che il governo mantenesse il punto di pensionare tutti gli ultra 67enni. Giusto o no non succederà, non solo per motivi poco commendevoli, e questi resteranno in ruolo cinque anni in più, fino agli attuali 72. Di certo resta che nella legge c’è solo quel limite stringente: non più di 28% di ordinari e almeno 40% di ricercatori per ogni ateneo da raggiungere non si sa come salvo che bloccando per anni ogni progressione. Tutto il contrario del rapido rinnovamento di forze necessario al paese.
Elaborando i numeri di alcune università a campione (i lettori possono agevolmente fare prove per altre università), ho trovato solo l’università di Bergamo in regola con i numeri previsti dalla nuova legge.
Con poche eccezioni, università col rapporto tra stipendi e docenti in perfetta regola come Macerata o disastrate come Firenze, che spende per il personale di ruolo più del 90% del Fondo di Finanziamento Ordinario, comunque non sono in regola con questi nuovi tetti. A Firenze per esempio, secondo la Gelmini, in questo momento vi sono ben 137 professori ordinari di troppo. Quanto ci vorrà per smaltirli (e se fossero risorse invece?) e permettere nuove assunzioni? Vero o no e ammesso e non concesso che i numerini di cui sopra abbiano un senso, benissimo, assumiamo nuovi ricercatori a migliaia perché ve n’è bisogno e perché l’Italia ha il rapporto più sfavorevole tra docenti e studenti nei paesi OCSE. Ma questo dalla Gelmini non è previsto se non a parole.
Reclutamento giovani
Proprio Firenze in questi giorni è la punta di lancia di un movimento che dovrebbe far parlare di sé. Forse centinaia di “docenti a contratto”, quasi sempre giovani ricercatori precari, hanno deciso che non insegneranno più gratis nella sola speranza che questo faccia merito per ottenere un posto domani. I genitori che pagano le rette universitarie per i figli non sanno infatti che da molti anni una percentuale notevole dei corsi è tenuta da persone disposte a lavorare gratis o quasi.
Qualunque cosa dica la Gelmini o qualunque teatrino metta in piedi la propaganda governativa portando in giro come madonne pellegrine pochi economisti fondamentalisti liberali e oscurando le voci contrarie, la realtà dell’Università italiana è che circa un quarto se non un terzo degli attuali corsi vengono tenuti gratuitamente o quasi, soprattutto da migliaia di giovani studiosi che dovrebbero formarsi studiando e invece dedicano una parte importante del loro tempo a realizzare corvée e con le quali sperono che una piccola percentuale di loro prima o poi potrà costruirsi un futuro.
La Riforma Gelmini in teoria sui giovani direbbe cose interessanti. È prevedibile che saranno le prime a essere cassate vittime di emendamenti. Per esempio, in un ambiente e in un contesto nel quale la mobilità è considerata fondamentale, per la prima volta si scrive nero su bianco che non si può fare tutta la carriera nella stessa sede e si deve vincere un concorso da ricercatore in una sede diversa da quella dove si è fatto il dottorato. Una norma del genere, che chi scrive pensa necessaria da sempre, smuoverebbe molte acque stagnanti. Ma il brividino nella schiena di centinaia di predestinati e “figli di” che sanno già che avranno il posto nella sede dove hanno studiato resterà un piccolo spavento passeggero. Tranquilli: questa norma non passerà.
Di tutt’altro tenore, totalmente inaccettabile, è la norma che stabilisce che il titolo di dottorato, che diventa prerequisito (ma la carriera di uno studioso deve davvero essere condotta per forza in un percorso tutto schematico e interno?), può essere speso solo entro cinque anni dal conferimento dello stesso. Poi diventa carta straccia. Se davvero la Gelmini si ripropone di accorciare i tempi della precarietà universitaria, dovrebbe confermare la parte che elimina la giungla di contratti precari, compresi gli assegni, e dopo il dottorato prescrive un solo contratto da tre o quattro anni da ricercatore a tempo determinato dopo il quale si concorre ad un posto a tempo indeterminato. Sarebbe migliorativo dell’esistente e andrebbe riconosciuto come tale.
Ma è vera macelleria sociale quella che avverrà con gli attuali precari della ricerca espulsi dal sistema a decine di migliaia. Con il virtuale blocco dei concorsi, previsto dalla legge 133 del 2008, che dal 2010 estenderà il blocco del turn-over anche ai concorsi da ricercatore, e col capestro del titolo di dottore di ricerca con la scadenza come lo yogurt cosa succederà agli attuali precari?
Il senso è che la Gelmini ha scelto per la precarietà della ricerca universitaria la stessa spada utilizzata per la scuola: eliminare alcune classi (demografiche) dal gioco prescindendo dal merito, dall’impegno, dall’inclinazione delle persone. Nella scuola ben pochi tra i ragazzi nati tra la fine degli anni ’70 e la metà degli anni ’80 potranno fare gli insegnanti mentre saranno assorbiti i precari storici per un patto scellerato con i sindacati che prescinde totalmente dal merito e dalle esigenze didattiche. È questa la formula scelta. Quindi il sistema, forse a metà del prossimo decennio, si riaprirà ma sarà troppo tardi per un’intera generazione di aspiranti insegnanti.
Lo stesso sistema adesso si sta per abbattere sull’università anche se nessuno lo dirà a chiare lettere. Chi è precario adesso e sta tra i 30 e i 40 (si ricordi che in Italia si diventa ricercatori in media a 38 anni, quando all’estero si è già ai vertici), difficilmente troverà collocazione. La legge 133 centellinerà gli ingressi fino alla fine della legislatura e dopo nemmeno le Università più virtuose potranno assumere strette dai numeri della nuova riforma.
Il sistema forse si riaprirà tra 5-6 anni e andrà bene per chi adesso si sta laureando o inizia gli studi dottorali. Ma per tutti gli altri, e stiamo parlando di circa 40.000 giovani studiosi, è vera macelleria sociale e l’Università italiana butta via una generazione intera, come se ci fosse una guerra. Alcuni emigreranno, la maggior parte, soprattutto quelli che non hanno famiglie alle spalle, cercheranno altro da fare nella vita. È la guerra dichiarata da Mariastella Gelmini contro l’Università pubblica e i suoi giovani.
Giornalismo partecipativo

sabato

incontro che si terrà con l'associazione Solare Collettivo il 16 maggio a S. Pietro in Cariano e il 17 maggio a Verona alla Genovesa alle ore 15.00


Sei interessato al tema delle energie rinnovabili? Vorresti diventare comproprietario di un impianto fotovoltaico? Allora non mancare!

Siete tutti invitati all'incontro che si terrà con l'associazione Solare Collettivo il 16 maggio a S. Pietro in Cariano alle ore 18.00 in sala Lonardi e il 17 maggio a Verona alla Genovesa alle ore 15.00.

Vi aspetto numerosi

Gloria

martedì

Ricostruire sì, ma come? No alle collette inutili


Paolo Hutter e Guido Viale
Dopo il disastro annunciato dell'Abruzzo, prima dei prossimi disastri annunciati diciamo basta all'esagerazione edilizia, alle costruzioni sregolate, al mito dell'aumento delle cubature. Le risorse pubbliche e private devono essere prioritariamente dedicate a mettere in sicurezza edifici pubblici e privati, a fargli risparmiare energia e ove possibile produrne coi pannelli. Questa è la prima opera pubblica necessaria del paese. Fermare le spese inutili o non prioritarie come il Ponte sullo Stretto la Tav al Frejus le nuove autostrade. Le banche diano la priorità al risanamento edilizio energetico e antisismico e non agli ampliamenti edilizi e tantomeno ai grattacieli.

Non parteciperemo a nessuna colletta in soldi per l'Abruzzo , perchè lo Stato ha il dovere di assistere gli sfollati e deve avere il coraggio di tassarci se c'è bisogno, e di fermare le spese inutili che abbiamo detto, e altre come i cacciabombardieri.Poco fa (8 aprile pomeriggio) Berlusconi che detto che non occorrono più vettovaglie e materiale, caso mai soldi. Certo farebbe comodo al governo non modificare i propri programmi economici perchè mezzo miliardo di euro gli arriva dalla commozione popolare..

Anche per quanto riguarda la Casa dello Studente, che rettori e collettivi studenteschi han proposto di ricostruire con sottoscrizioni popolari, il Ministero della Pubblica Istruzione ha stanziato i fondi. Come al solito i problemi più gravi sono per chi non è nel cono di luce dell'attenzione del momento.

Pensiamo per esempio a chi vive in una vecchia casa in zona sismica e ha perso il lavoro e non ha i soldi per mettere in sicurezza l'edificio.
Volontariato e ospitalità sì, sono risorse non monetizzabili, sono scambio umano e sociale. Ma soldi ne daremo - e suggeriamo di darli - solo alle associazioni e formazioni politiche che si battano per gli obiettivi di sostenibilità che abbiamo indicato.
09/04/2009

Per Jeremy Rifkin energia, economia ed ecologia crescono in parallelo

MARK UP dialoga con l´economista americano che sarà in italia all´incontro Nielsen di maggio. Cominciare a pensare al tema dell'energia in modo nuovo, degno del XXI secolo: così Jeremy Rifkin presenta la sua idea di terza rivoluzione industriale. Scelte come quella di tornare alle centrali a carbone o anche a centrali nucleari, agli occhi dell'economista americano sono passatiste e controproducenti e portano con sé problemi ben più pesanti rispetto ai possibili benefici.
MARK UP incontra l'economista e autore americano a Bologna, in occasione della sua lezione magistrale a chiusura del festival dell'urbanistica Urbania. È la seconda volta, dopo quella del settembre 2004 (MARK UP n. 120, intervista di copertina pagg. 20-23). - Un futuro diverso Per il futuro occorre puntare su nuove forme di energia, ma quali? "Quelle provenienti dalla trasformazione dei rifiuti, per esempio - risponde Rifkin - l'energia geotermica. Penso a edifici in grado di generare energia pulita e di condividere le eccedenze di produzione attraverso una rete di scambio con i vicini. Chi sostiene l'energia nucleare afferma che abbiamo la soluzione al problema della CO2. Eppure ciò non ha senso: una centrale nucleare comporta più problemi che risultati. Non solo: oggi nel mondo ci sono 1.400 centrali che coprono il 5% del fabbisogno, e per di più sono obsolete. Anche se si ristrutturassero, non arriverebbero a coprire il 20% delle necessità. Bisognerebbe costruirne una ogni trenta giorni per sessant'anni. Si tratta di un'idea delirante, in tempi di crisi economica globale anche solo pensando all'investimento...". - Capolinea crisi Inevitabile arrivare al tema dell'attuale contingenza mondiale. Spesso vista quale pietra tombale di qualsiasi ipotesi sperimentale verso un domani differente, costruito su logiche di sostenibilità. Sulla crisi, Rifkin sembra essersi fatto un'idea chiara. "I tre fattori di crisi (finanziario, energetico, ambientale) si alimentano reciprocamente. Siamo nell'occhio del ciclone, tutto si fonda sulla globalizzazione partita da ipotesi sbagliate. Che fare? Anzitutto riconoscere l'esistenza del problema e del fatto che serviranno anni e anni per recuperare. Ma, soprattutto, prendere atto che serve una nuova visione della storia e della civiltà umana, che sia soluzione alle tre crisi insieme. Ci sono milioni di opportunità di lavoro che possono essere create mediante la scelta di produrre energia sicura.
Energia, economia ed ecologia possono andare di pari passo. La terza rivoluzione industriale sarà caratterizzata dall'energia diffusa e dall'informatica. Qualcosa che ricordi il passaggio dal mainframe al pc.". - Una lezione appresa da internet L'intera logica è, dunque, un'altra. Occorre guardare avanti, osservare i giovani che, preparati da internet, vogliono produrre l'energia e gestirla come gestiscono i loro file: in modo libero, creando reti interconnesse di energia. "Le tecnologie dell'informazione distribuita e il capitale redistribuito creeranno più occasioni di lavoro per i giovani. La terza rivoluzione industriale darà più lavoro a tutti". Rifkin presenta così le ipotesi per realizzare la sua visione del futuro. "Sono già aperti forum di discussione sull'energia solare e geotermica. Coinvolgono grandi aziende, pronte a investire, così come imprese del settore edilizio e immobiliare, pronte per la nuova avventura. E, ancora, ci sono imprese che dichiarano di volersi occupare dello stoccaggio dell'idrogeno e società che forniscono servizio pubblico di distribuzione, anch'esse disposte a muoversi in un sistema sostenibile dell'energia". Il primo pilastro, come detto, riguarda la microproduzione e l'appoggio informatico per la messa in comune delle rispettive eccedenze. Il secondo pilastro è la raccolta e lo stoccaggio delle fonti energetiche pulite rinnovabili. - Passaggi di civiltà energia e scrittura insieme "Nell'ambito che stiamo trattando i grandi cambiamenti avvengono quando una civiltà cambia contemporaneamente regime energetico e modalità di comunicazione. È riscontrabile in alcuni passaggi storici: i sumeri hanno elaborato un sistema idraulico per creare energia e contemporaneamente hanno creato la scrittura. Quando si introdusse la tecnologia del vapore, contemporaneamente arrivò il telefono. La rivoluzione delle Ict (internet, il wifi) distribuita senza un vertice unificante dà un'indicazione di sistema anche per l'energia.
Mentre con le energie note come quelle derivanti da petrolio e dal nucleare si doveva centralizzare, ora dobbiamo prendere atto che l'energia rinnovabile è dovunque, nel mare, nel vento, nelle foreste nei rifiuti e sottoterra".Ogni casa diventa un centro di produzione. Ecco la ristrutturazione edilizia del secolo Ripensare gli edifici come piccole centrali energetiche. Dovranno essere in grado, cioè, di catturare energia (solare, eolica, geotermica ecc.) per poi metterla in comune. I nuovi edifici rappresentano insieme un problema e una soluzione. La svolta poggia su un primo pilastro, che è quello della produzione in loco dell'energia. L'energia diffusa è vicino a noi, è ovunque. C'è la necessità di ristrutturare l'edilizia attuale e costruire nuovi edifici in grado di produrre energia. - Ogni sito deve essere pensato per raccogliere e generare di volta in volta energia dal sole, dal vento, dai rifiuti, dalle scorie agricole e boschive, da fonti idriche e geotermiche, dalle onde e dalle maree: un quantitativo sufficiente a soddisfare le proprie esigenze e a creare eccedenze energetiche da condividere. Nel sistema attuale il 30% dell'energia consumata è destinato alle abitazioni e non va dimenticata l'incidenza che hanno le industrie, per esempio quelle alimentari, nell'utilizzo di energia e nella produzione di CO2.
"Eppure il rapporto si può ribaltare. Guardando a tecnologie pulite, ci si accorge che può bastare un solo sito industriale a fornire energia a 4.200 residenze familiari. General Motors ha deciso di ristrutturare secondo questi principi la sua fabbrica a Saragozza (Spagna) investendo 78 milioni di dollari per installare celle fotovoltaiche sul tetto e produrre tanta energia da soddisfare 4.200 case private. I costi di ammortamento sono di soli nove anni. Ancora: in Oregon (Stati Uniti) c'è il parco tecnologico del XXI secolo che usa esclusivamente fonti eoliche e solari. Questa è la rivoluzione industriale". In tale ottica, evidentemente, anche i centri commerciali potranno contribuire, proponendosi in qualità di grandi produttori di energia. Si tratta di implementare reti intelligenti di connessione e si potrà condividere l'energia come già oggi si condivide l'informazione. "I giovani sono già in grado di ragionare in maniera distribuita. Ciò va verso la creazione di un mondo sostenibile.
Sant'Antonio - terza città industriale degli States - ha sposato questa nuova idea di rivoluzione industriale, accettandone il modello: perché Bologna non potrebbe farlo?". - Connettere l'Italia comunale È possibile immaginare gli edifici delle città storiche italiane messi in rete? Si può fare, e si può fare anche in fretta, secondo Rifkin. Nella città scelta come prototipo di questa terza rivoluzione saranno installati pannelli solari anche sui vecchi edifici. "Le energie rinnovabili sono l'unica possibilità che abbiamo di fronteggiare il cambiamento climatico.
Il solo modo per non accelerare ulteriormente il riscaldamento del pianeta. L'Italia deve tenere conto, per esempio, che la Spagna, che le è molto simile, è già riuscita in due regioni, Aragona e Navarra, ad approvvigionarsi per il 70% da energia rinnovabile: eolica e solare". E indica su quali forze si deve contare per realizzare questa rivoluzione. "Occorre che i politici e gli industriali aprano il dialogo con il terzo settore, con la società civile. Se i politici avranno questa lungimiranza la terza rivoluzione industriale si farà". (Il Sole 24 Ore)

mercoledì

E alla fine la Gelmini ha tagliato

di Giorgio Mele

C’è qualcosa di perverso nel modo di governare del ministro Gelmini. Dopo aver sbandierato e giurato nei giorni scorsi che le polemiche sui tagli alla scuola erano senza fondamento, nella circolare emanata negli scorsi giorni l’ineffabile ministro ha obbedito ancora una volta e pedissequamente alla logica di Tremonti e alla filosofia di fondo di questo governo tesa ad affossare la qualità della scuola pubblica.
Sono stati tagliati 42 mila insegnanti nel biennio 2009-2010. Vengono colpiti tutti gli ordini e gradi della scuola italiana, vengono tagliati gli insegnanti di lettere, gli insegnanti di tecnica. Gli insegnanti delle elementari e quelli delle superiori.In questo modo il governo, al di là dell’accoglimento di alcune richieste del sindacato, agisce consapevolmente come uno dei fattori della crisi. Tutti i dati sull’occupazione in Italia e nel mondo indicano una contrazione degli occupati e pongono la necessità di trovare tutti gli strumenti necessari per fronteggiarla e il governo invece come un qualsiasi padroncino irresponsabile decide di continuare nel suo progetto e di gettare nel dramma della disoccupazione per ora 42000 persone e nei prossimi anni altri centomila. Chissà come deve godere il ministro Brunetta di fronte a questa macelleria sociale che colpisce in primo luogo le donne che ormai, quando saranno licenziate, avranno tutto il tempo di fare la spesa anche di mattina senza uscire più dall’ufficio.Con questi tagli e con la riduzione dei finanziamenti le scuole rischiano sempre di non dare un’offerta formativa all’altezza della sfida culturale del presente e vengono ulteriormente penalizzate le regioni come quelle meridionali dove i servizi sono già decisamente carenti.
Ma il punto più significativo è che l’attacco alla scuola pubblica è l’attacco ad una dei fattori più importanti di coesione sociale e di unità del paese. Con la attuazione del federalismo questo rischio di divisione e di disgregazione dell’unità culturale del paese diventa ancora più potente e con essa si alimenta una diseguaglianza inaccettabile tra i cittadini di questo paese. Migliaia di lavoratori della conoscenza hanno marciato a Roma insieme alla Cgil per contrastare questo disegno distruttivo, non hanno fatto una scampagnata, come dice quello zuzzerellone di Brunetta, hanno dimostrato perché la scuola pubblica non venga smantellata, perchè non venga abolito il valore legale del titolo di studio come ha spesso annunciato la Gelmini e perchè non venga approvato il disegno di legge Aprea in discussione nelle commissioni parlamentari, che aprirebbe all’americanizzazione (alla privatizzazione) e allo stesso tempo alla balcanizzazione della scuola italiana. Cioè tutto il contrario di cui ci sarebbe bisogno. Ed è su questo che come sinistra nelle prossime settimane dobbiamo sviluppare dovunque una iniziativa concreta e costante. Ne va del futuro di tutti noi e dei nostri figli.

martedì

“Blitz inaccettabile per la riconversione di Porto Tolle a carbone”

Greenpeace – Legambiente –WWF
Introdurre un emendamento approva centrali a carbone in un DL sugli incentivi anti crisi da sottoporre alla fiducia del Parlamento è un inaccettabile inganno da prestigiatore contro le norme italiane ed europee. Invece che puntare sulle rinnovabili, come USA, Germania e altri Paesi leader nel mondo, l'Italia torna al carbone e al nucleare, una scelta di retroguardia che non tiene conto dello scenario internazionale di promozione delle tecnologie verdi in campo energetico e ambientale.
La conversione a carbone della centrale Enel di Porto Tolle, nel bel mezzo di un parco naturale patrimonio dell’Umanità per l’UNESCO, comporterà impatti devastanti per il delicato ambiente del Delta del Po, come il passaggio di 3000 chiatte all’anno per portare il carbone all’impianto.
Con questo emendamento il Governo approva una deroga inaccettabile alla Legge Regionale che istituisce il Parco Naturale e che vieta espressamente l’utilizzo del carbone, permettendo la riconversione del nuovo impianto che aggiungerà 10 milioni di tonnellate di CO2 ai ritardi dell’Italia rispetto agli obblighi di riduzione previsti dal Protocollo di Kyoto.
Le 12 centrali a carbone attive in Italia hanno prodotto nel 2007 il 14% del totale dell’energia elettrica a fronte di un’emissione del 30% dell’anidride carbonica emessa per la produzione complessiva di elettricità.
Con questo “blitz” il Governo fa carta straccia degli impegni internazionali per la riduzione delle emissioni di gas serra, per i quali l’Italia è già inadempiente, e dei nuovi impegni europei per lo sviluppo delle fonti rinnovabili al 2020. Una politica energetica ottusa e antistorica che riporta il Paese al medioevo energetico, proprio mentre il resto del mondo guarda con fiducia a una nuova rivoluzione tecnologica pulita, efficiente e rinnovabile per salvare il Pianeta dai cambiamenti climatici e per creare nuovi milioni di posti di lavoro verdi con cui affrontare la crisi economica. Greenpeace, Legambiente e WWF commentano così in una nota congiunta la norma che dà il via libera alla riconversione a carbone della centrale di Porto Tolle.


Gli Uffici stampa

Greenpeace
Ufficio stampa Greenpeace +39 06 68136061 (int.211)
Vittoria Iacovella, addetta stampa, +39 348 3988615
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Legambiente (06.86268379-76-53-99)

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Procurato allarme, prevedere e prevenire terremoti e altre sciagure in un’Italia contro la scienza

di Gennaro Carotenuto,
Il paese che cade giù a pezzi anche senza bisogno di un terremoto (a volte basta un acquazzone come a Sarno), è quello nel quale si dà all’untore o si denuncia per “procurato allarme” uno scienziato che aveva previsto con precisione il terremoto in Abruzzo non in un futuro ipotetico ma qui e ora.
Forse dovranno dargli il premio Nobel a Giampaolo Giuliani, che all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare sotto il Gran Sasso ci lavora, per quel meccanismo che sembra in grado di sentire arrivare i terremoti qualche ora prima. O almeno ascoltarlo invece di trattarlo come una Cassandra. Ma forse non poteva andare diversamente in Italia se meno di una settimana fa, il 31 marzo, San Guido Bertolaso, un’icona dell’efficientismo bi-partisan, aveva insultato "quell’imbecille che si diverte a diffondere notizie false".
Forse era impossibile far davvero evacuare l’Aquila come la previsione di Giuliani (il rivelarsi esatta non è una colpa) induceva a fare. Ma in un paese oramai anti-scientista sempre e comunque, in pochi oramai sanno distinguere uno scienziato o una scienziata da una fattucchiera. In un paese sempre più ignorante, e quindi sempre più superstizioso, la prevenzione, il preparare la cittadinanza a eventi catastrofici, il lavorare non per cancellarli con un miracolo, ma per ridurne al minimo le conseguenze come si fa in paesi più sismici ma anche più civili del nostro, è sempre più mal visto. Oltretutto costa e non offre quei dividendi d’immagine, di favori, di clientele che le tragedie annunciate offrono ai politici dopo che questi hanno già speculato su deroghe, proroghe, sanatorie, condoni. Meglio una photo-opportunity (dopo) per un politico, meglio andare a benedire le salme (dopo) per un cardinale, meglio costruire male (prima) e ricostruire (dopo, bene?) per il sistema edilizio, meglio condurre una lunga diretta da “breaking news” (dopo) che realizzare una noiosa inchiesta (prima) per un giornalista.
Forse sarebbe stato meglio se Bertolaso con Giuliani ci avesse fatto una chiacchierata (prima) invece di denunciarlo. Questo, come qualunque scienziato onesto, poneva un problema rompendo uno schema stantio per offrire una soluzione per risolverne uno più grande. I terremoti non si possono prevedere, dicono. Chissà, magari in futuro si potrà come per i segnalatori di fughe di gas e magari il merito sarà della vituperata ricerca scientifica italiana. Ma il prevedere o meno sposta i termini della questione.
Il problema non è prevedere, è prevenire. Mille cose possono essere fatte e vengono fatte altrove, ma già, noi italiani dei giapponesi preferiamo riderne. Ma è meglio spendere soldi, allarmare, per evitare una tragedia, far rispettare e non derogare norme antisismiche prima, oppure invocare la fatalità e il destino cinico e baro dopo? E’ meglio fare campagne per insegnare a usare il preservativo o invocare l’astinenza contro l’AIDS? Meglio un peccatore all’inferno o un santo vivo? Chi adesso userà il decreto sull’edilizia, il “Piano casa”, per alzare di un piano la propria abitazione (ringraziando il governo) la renderà più o meno anti-sismica?
In un paese dove oramai tutti gli studiosi sono considerati azzeccagarbugli, grilli parlanti da schiacciare sulla parete, se non irrisi come fannulloni e additati tutti come baroni (pure i ricercatori precari nella vulgata Perotti-Stella) la scienza, lo studio, è oramai la più negletta delle discipline. Ma per un Giuliani che aveva avuto l’ardire di predire un terremoto quanti consigli che dagli studiosi vengono sono ignorati, presi con sufficienza o addirittura rifiutati? Sono impopolari, fanno spendere, rompono schemi mentali consolidati, causano problemi con i poteri forti. Quanti costituzionalisti (scienziati della Costituzione) avevano avvisato che la legge sulla fecondazione assistita così come concepita era perlappunto incostituzionale? I politici sono andati avanti per poi stracciarsi le vesti di fronte l’attentato della Corte Costituzionale (sic) alla centralità del Parlamento. Come se sostituendo alle regole civili la volontà d’Oltretevere bastasse portare il santo patrono in processione per fermare i terremoti o le eruzioni vulcaniche.
Del resto a che serve la ricerca scientifica (è il messaggio) se non a creare rompiscatole, cassandre, fondamentalisti dell’ambiente, regole, controlli, tasse, ovvero le cose più invise agli abitanti del paese del “meno male che Silvio c’è”. Magari a volte sbagliano gli scienziati ma sarebbe il caso di parlare, dare spazio a quelli che vorrebbero prender precauzioni per tutte quelle radiazioni, quei pesticidi, quelle polveri sottili che ci attraversano la vita, per le incipienti centrali nucleari in un paese sismico come l’Italia dove se vedi un pannello per l’energia solare ti viene ancora voglia di fotografarlo come una stravaganza. Per l’opportunismo a breve termine e la grettezza del potere politico ed economico stiamo ritornando al Sillabo di Pio IX.
Forse la denuncia di Giuliani non poteva essere presa in considerazione, ma nel paese dove ogni anno che il padreterno mette in terra, governi di destra e sinistra, approvano un “decreto mille proroghe” (sic) dove si rinviano, spesso a mai, scadenze importantissime come quelle per l’applicazione delle norme antisismiche, è mille volte meglio evacuare l’Aquila a vuoto perché uno scienziato si sbaglia (prima) piuttosto che la processione di politici e sciacalli già pronti a lucrare sulla ricostruzione (dopo).
Forse non è questione di prevedere (i terremoti, le alluvioni, le fughe di gas, le catastrofi nucleari) ma di essere preparati, mettere il territorio in sicurezza, di essere un popolo in grado di affrontare il proprio destino con razionalità e non con fatalismo. Più che di angeli del fango ed eroi che salvano vite scavando a mani nude tra le pietre abbiamo bisogno (prima) di una merce ormai introvabile: progresso, progresso scientifico, progresso sociale, progresso culturale.

La sicurezza è un obiettivo di tutti, da destra a sinistra: far avanzare analisi e proposte condivise per azioni concrete e non di facciata

I sindacati di polizia non sono stati abbagliati dai proclami sulla sicurezza. Con dati oggettivi alla mano ci richiamano alla realtà del problema: mancanza di mezzi, decurtazione delle risorse finanziarie, impossibilità degli operatori ad essere tempestivamente sul territorio.
I dati esposti dal sindacati SAP e UGL parlano chiaro: in questo momento è difficile garantire la tanto richiesta sicurezza e a quasi nulla valgono il tran-tran in città delle camionette dell’esercito, scortate dalle poche auto della polizia rimaste ancora circolanti.
Questi sono i dati reali.
Mettere davanti agli occhi dei cittadini la sicurezza percepita è un conto, offrire una reale sicurezza è un altro paio di maniche.
Che fare ?
Esprimere solidarietà alle forze di polizia per l’attuale ingrato compito che hanno di fare le nozze con i fichi secchi sul problema, rischiando anche sulla propria pelle, è il meno che si possa fare.
Ma è troppo poco.
I Verdi ritengono che oltre far aprire gli occhi ai cittadini su questa dura realtà, sia necessario fare uno sforzo tutti, tutte le forze politiche, finché la sicurezza sia davvero garantita.
Non va fatto un discrimine se AN con il ministro La Russa considera esauriente l’uso dei militari nelle città (e negli altri territori ?), o se la Lega con Maroni suggella le ronde; tutti coloro che sono nella politica, da destra a sinistra, devono impegnarsi per formulare risposte vere e condivise a sostegno della richiesta di sicurezza (piattaforma).
Vanno avanzate nuove proposte, efficaci: sollecitando gli organismi competenti (Prefetto, Questore), creando un tavolo di confronto e risolutivo tra gli esponenti parlamentari, così da far arrivare Roma posizioni concrete (piani, risorse, normative).
La sicurezza non può essere un emblema, qualche volta sfiorando la caricatura, della Lega o di AN. Rispondere a questa istanza così fortemente sentita dall’opinione pubblica è un dovere di tutti, così come togliere di mezzo le sue false soluzioni.
E vengono poste delle domande che vorrebbero delle risposte: ad esempio l’assessorato alla sicurezza della Provincia cosa ha fatto in questi anni, quali risorse ha attivato, quali piani ha approntato. E poi il combustibile delle camionette dei soldati non sarebbe meglio utilizzarlo per le pantere della polizia.
Solo con la massima concretezza e lucidità, le forze dell’ordine non si sentirebbero più sole e isolate, ma invece potrebbero agire con efficienza; e solo così la politica non utilizzerebbe questo problema per dei proclami, o dei tornaconti di parte; solo così i cittadini sarebbero veramente sicuri.
Anche la sinistra non deve nascondersi, affermando che la sicurezza è quella del posto di lavoro garantito, del giovane che non è più precario, della scuola che funziona. Certo sono prioritari questi obiettivi; ma sono anche necessarie le gazzelle dei poliziotti che almeno girino per le nostre strade, per tutelare i cittadini, dalle donne, ai giovani, agli anziani.

Verona, 16 marzo ‘09 Claudio Magagna – Federazione Verdi

La privatizzazione dei servizi sociali. Tosi toglie la maschera sulla bontà della sua Giunta

Non sono conosciute le scelte che sta facendo oggi la Giunta presieduta dal sindaco Tosi in merito al tentativo di esternalizzare alcuni servizi sociali del Comune come le mense e gli asili nido, le scuole dell’infanzia, musei e biblioteche; ma una certezza i Verdi a riguardo la esprimono: nessun depotenziamento di queste prestazioni, ritenute per lo più d’eccellenza, nessuna penalizzazione dei lavoratori addetti, ma soprattutto nessun danno per i cittadini e per le famiglie, che in questi anni hanno potuto apprezzare questi servizi.

I Verdi ritengono utile che su temi come quello della privatizzazione dei servizi delle mense e degli asili nido, ci sia un’immediata risposta della città di Verona. Non è possibile che le famiglie accettino passivamente un ridimensionamento della qualità delle prestazioni per i propri figli.
In questi giorni c’è stata invece una forte determinazione dei lavoratori a contrastare le scelte di Tosi, ma una timida presa di coscienza dei veronesi in generale.

E’ quindi indispensabile che si formino dei comitati di cittadini, di genitori, a livello di quartiere o nelle singole situazione coinvolte, affinché l’amministrazione comunale riveda il progetto nel suo insieme.

I lavoratori devono essere fatti partecipi delle eventuali scelte e non lasciati fuori solo a protestare; le soluzioni devono garantire la qualità dei servizi e non devono esserci speculazioni, o risparmi impropri su questi servizi. E’ infatti utile ricordare che la Giunta Tosi è disponibile a spendere quasi 400 milioni di euro per il traforo delle Torricelle, esattamente 50 volte l’ammontare degli otto milioni previsto per ristrutturare questi servizi sociali fondamentali per la cittadinanza.

E non va nemmeno tirato in ballo l’articolo 77 bis – comma 8 della legge sul Patto di Stabilità degli enti locali, che sancisce che “le risorse derivanti dalla cessione di azioni o di quote di società operanti nel settore dei servizi pubblici locali … non sono conteggiate … per il rispetto del patto di stabilità se destinate alla realizzazione di investimenti infrastrutturali …”.

Piuttosto è abbastanza insolito che il sindaco Tosi e i suoi assessori mettano mano a settori municipali che hanno espresso qualità e che potrebbero creare ancora consenso. Evidentemente la partita è molto più complessa e va vista con altre lenti interpretative. E’ in gioco con buone probabilità l’avvio di un nuovo modello di azione amministrativa, voluto in particolare da Tosi e dalla Lega, dove è il privato a fare le scelte e a gestire le risorse finanziarie pubbliche (privatizzazione), dove la qualità della prestazione passa in secondo piano e dove le risorse umane impiegate non devono esibire iniziativa o critiche, ma devono assecondare in pieno la volontà degli amministratori, senza alcun intoppo, o sfasatura. E si è ritenuto quindi più opportuno dare avvio a questo processo, iniziando dall’istruzione e dalla cultura, che per definizione sono sempre state la realtà meno malleabili, più indipendenti verso le politiche dell’ente locale.
E non è un caso che dopo l’elezione del sindaco Tosi, il primo dirigente ad essere stato rimosso sia stato quello della Pubblica Istruzione, in parallelo con quello dell’Ambiente; settori che bisognava “normalizzare”, riportare nell’alveo delle logiche della nuova Amministrazione leghista.

In tutto questo, l’assordante protesta sotto il municipio dei dipendenti comunali interessati alla presunta privatizzazione la dice lunga invece rispetto al preoccupante silenzio della politica e in particolare dei partiti della maggioranza verso il problema, ma anche della necessità di coinvolgere e di informare tutta la cittadinanza su questi temi, argomenti di importanza vitale per Verona.

Claudio Magagna - Federazione dei Verdi di Verona

Più pompe erogatrici in città, a sostegno della scelta del metano

Dopo che il Comune di Verona ha deciso di sovvenzionare l’installazione dell’impianto a metano per circa 250 auto, con una spesa di 40 mila euro, i Verdi rilanciano, chiedendo che l’impulso dato dagli amministratori stessi sia ulteriormente sostenuto, favorendo l’apertura di nuovi distributori di metano per auto nella città di Verona.
Attualmente le colonnine di metano che si trovano attorno alla città sono solo tre e si trovano oltre la periferia. I Verdi sostengono l’esigenza che il rifornimento di gas naturale possa essere fatto anche all’interno del tessuto cittadino, evitando così di penalizzare i veronesi che altrimenti per riempire il serbatoio di metano dovrebbero spostarsi di qualche chilometro, con l’aumento così il volume degli spostamenti, non auspicabile nel già intenso traffico cittadino.
“Solo un distributore è disponibile in città a Verona, ed è quello di Basso Acquar;” – afferma Claudio Magagna dei Verdi – “aprendo altre pompe di metano nell’area urbana, con la salvaguardia peraltro dei requisiti di sicurezza, potremmo dare una grossa spinta all’uso di questo combustibile, che inquina nettamente meno della benzina. Verona sarebbe più pulita e l’impegno dell’ente locale verso l’opzione del gas naturale, a discapito degli altri combustibili fossili, che producono un volume elevato di polveri sottili, assumerebbe un maggior valore. L’iniziativa così di sovvenzionare gli impianti a metano per le auto, non resterebbe un’azione isolata, fine a se stessa, ma assumerebbe un valore di scelta organica e di prospettiva per una Verona meno inquinata”.
I Verdi sono convinti di questa proposta a favore dell’ambiente, considerata anche la grossa spinta che è arrivata dalle aziende automobilistiche, ormai orientate a ridimensionare la benzina a favore dei motori con trazioni alternative, vada fatta con grande determinazione.
Il mercato a riguardo, negli ultimi tempi, ha risposto bene; i clienti si sono trovati d’accordo sull’utilizzo del metano per la propria auto, tanto che nell’ultimo anno le immatricolazioni in Italia di auto a metano sono aumentate di oltre il 200%.
Claudio Magagna sollecita inoltre il Comune di Verona, ma anche le aziende di trasporto locale a seguire queste scelte a favore del metano, acquistando e facendo sempre più circolare corriere alimentate dal gas naturale. I famosi 70 autobus ecologici dell’era del sindaco Zanotto, dovrebbero essere registrati solo come un punto di partenza per questa nuova rivoluzione nel trasporto pubblico e in quello privato, che andrebbe a migliorare la salute dei veronesi, ma anche la qualità del traffico cittadino.

Verona, 26 gen. 09 Claudio Magagna – Federazione Verdi Verona

I Verdi con il Comitato di corso Milano, senza esitazioni


I Verdi condividono la proposta del Comitato per corso Milano: una corsia per ogni direzione, marciapiedi più grandi, piste ciclabili; distribuendo l’attuale volume di traffico su altri percorsi.
Solo in questo modo corso Milano potrà ritornare ad essere una via per il quartiere e non invece una grande arteria di penetrazione alla città com’è in questo momento; con il suo inquinamento, i suoi incidenti, l’impossibilità di dare una prospettiva residenziale degna del nome ai suoi abitanti.

L’amministrazione Tosi deve rivedere il suo progetto, il Consiglio comunale deve farsi parte attiva per raggiungere questo obiettivo, compreso il PD che deve dimostrarsi più determinato a riguardo.

Finora i Verdi, non presenti in Consiglio comunale, hanno preferito rimanere in seconda battuta, senza dimostrare l’impegno che un problema come corso Milano avrebbe meritato sul piano ambientale, ma anche su quello della viabilità e della qualità urbana, convinti che il “lasciar fuori la politica” dalla situazione avrebbe favorito una soluzione, condivisa con i cittadini, in prima persona.

Ancora una volta la Giunta Tosi ha voluto esibire invece il “braccio di ferro” con l’ennesimo comitato, dimostrando di non aver strumentazione adeguata in termini di elaborazione tecnica e di cultura urbanistica per dare delle valide e concrete risposte ai reali bisogni dei cittadini.
Non a caso è fin troppo facile per il Comitato di corso Milano mettere in evidenza la contraddizione di questa Amministrazione, quando dimostra risolutezza per la viabilità a nord con il traforo e poi arruffa con corso Milano.

I Verdi richiamano l’impegno dei vari livelli istituzionali, dal consiglio di Circoscrizione al Consiglio comunale per delineare una “buona” soluzione per corso Milano, che soddisfatti in primo luogo i residenti e poi anche le esigenze della viabilità.
Infine si rivolge alle forze politiche del centro-sinistra affinché su problemi come questo ci sia un’azione comune, condivisa, oltre che incisiva.
Verona, 14/2/09 Claudio Magagna – federazione Verdi Verona

Il quadruplicamento ferroviario tra Padova e Treviglio va fatto, senza sprechi.

Va anche potenziata l’offerta ferroviaria locale per il trasporto dei pendolari e per il decongestionamento delle città, come Verona.

Non deturpando il territorio con interventi inutili e devastanti, come è spesso accaduto con le opere ferroviarie e contrariamente a quanto è opinione diffusa, i Verdi veronesi sono favorevoli alla costruzione dei quattro binari tra Padova e Treviglio, perché così si favorisce il trasporto delle persone e delle merci con il treno.
Primo per decongestionare l’autostrada Serenissima, che con i suoi cento milioni di veicoli all’anno è una fonte primaria dell’inquinamento.
Secondo per affrontare il problema del traffico quotidiano di auto dei pendolari, in particolare nelle principali città capoluogo.
Terzo, per permettere la realizzazione di un sistema ferroviario metropolitano anche nel Veneto occidentale; sul modello del nascente SFMR (sistema ferroviario metropolitano regionale) tra Venezia, Padova, Treviso.
In questo modo il territorio di Verona potrebbe disporre di un’offerta ferroviaria adeguata da Peschiera e da S. Bonifacio, ma anche da Villafranca (mancano solo 8 km del secondo binario) e dall’aeroporto; e soprattutto la Bassa verrebbe riqualificata e tolta dall’isolamento attuale con nuovi binari.

Tutto questo invece può rimanere ancora un sogno. Si sprecano tante buone intenzioni nei convegni, ma poi la realtà è un’altra.
In questi anni, solo nell’ambito veronese, sono state eliminate le stazioni ferroviarie di Cadidavid, Parona, Lugagnano, Sommacampagna (attorno alla città), Pescantina, Ceraino, Pellegrina, Vigasio, Castel d’Azzano, Tarmassia e recentemente Gazzo.
Il presidente della Provincia Elio Mosele, su spinta dei Verdi e di Legambiente, ha avanzato la proposta di un tracciato ferroviario metropolitano tra Legnago e Verona, ma finora è rimasto lettera morta. Il collegamento su rotaia con il Catullo ogni tanto compare sulla bocca dei politici che contano, ma poi plana subito nel dimenchicatoio.

Per questo i Verdi oltre a considerare il quadruplicamento della Padova-Treviglio indispensabile, ritengono che nell’eventualità ci fossero le risorse finanziarie, queste andrebbero utilizzate senza sprechi (in Italia il costo di questo tipo di opere pubbliche è oltre il 30% rispetto alle tabelle europee) e senza interventi correlati, tante volte inutili, per lo più avanzati dal sindaco di turno per propri tornaconti elettorali, ma anche dalle aziende che operano nei cantieri per aumentare il volume di spesa, attraverso le varianti in corso d’opera.
L’ eventuale disponibilità di denaro recuperata andrebbe a favore del potenziamento dei tracciati ferroviari per il traffico locale dei pendolari e della riqualificazione infrastrutturale del territorio veronese nel suo insieme.

Oggi si assiste all’ennesimo convegno a Verona sull’alta velocità ferroviaria. Una gran mole di meeting. Se tutti questi appuntamenti fossero serviti, probabilmente ora avremmo non la linea alta velocità tra Milano e Venezia, ma almeno sei binari tra S. Marco e la Madunnina; ma così non è.
Mancano i soldi per realizzare questi investimenti; nonostante che il progetto della Milano-Venezia, meglio della Treviglio-Padova, sia da anni inserito nella legge “Obiettivo”, quella che prevede le priorità e i finanziamenti per gli interventi infrastrutturali nel quadro nazionale.
Finora si era tentato di dar la colpa per la mancata cantierizzazione anche ai Verdi e ai comitati, se non ai sindaci; ma questo marchingeno non funziona più, ed è stata tolta la maschera al Governo Berlusconi, che non è in grado di far partire la realizzazione dei quattro binari tra Padova e Treviglio.

Federazione dei Verdi di Verona (3462131044)

Il nuovo stadio, opportunità per il privato, ancora oneri per i cittadini

Alcuni numeri, circa la possibile realizzazione del nuovo stadio a Verona.
Ipotesi di spesa per il nuovo progetto 40 milioni di euro, senza considerare la demolizione dell’attuale Bentegodi.
Miliardi 150 delle vecchie lire per l’allargamento dell’esistente, per i mondiali di calcio del 1990.
Non abbiamo un idea di quanto costò il nuovo Bentegodi di piazzale Olimpia a metà degli anni ’60.
Fatti due calcoli a ciascuno dei 250 mila veronesi, compresi i neonati, il quarto Bentegodi verrebbe a pesare nel suo portafoglio almeno mezzo milione delle vecchie lire, circa 250 euro attuali.
Certo, verrebbe da dire, i veronesi sono molto generosi con il calcio: sono disponili a togliere dalle proprie tasche, da quelle dei loro bambini e delle loro moglie, o fidanzate, per far giocare il Verona o il Chiedo, quasi 3 abbonamenti alla Rai, o forse meglio 4 giorni di pensione completa a Rimini, o comunque senz’altro un quinto dello stipendio di un mese. Niente male.
A tutto ciò si aggiunge, come valutazione, che a qualsiasi opera pubblica si addebitano almeno 30 anni di funzionamento. Sotto tale periodo infatti l’intervento viene considerato negativo; sia in termini di oneri per la collettività, ma anche per la sua resa (ammortizzazione). Non a caso le scuole e gli ospedali, anche di Verona, superano ampiamente questo limite temporale.
Nel caso del Bentegodi, se si eccettua la prima realizzazione, quella nel centro cittadino, per il resto non vengono rispettati questi parametri di buona e corretta spesa pubblica.

Perché allora questa frenesia per un nuovo stadio ?
La risposta più semplice si potrebbe ricercare nella rincorsa che già altre città italiane fanne per disporre di nuovi stadi: Roma, Milano, Torino, Napoli; così come è stato in Inghilterra. Tutti “privati” e forse qua casca l’asino, ma in Italia con i soldi pubblici.

A Verona c’è un aspetto particolare, però, anzi ce ne sono due.
Il primo riguarda il valore di piazzale Olimpia, come nuova area residenziale, o meglio immobiliare.
I Verdi propongono che qualsiasi azienda edile o immobiliare che potrà intervernire su questo spazio cittadino, a rischio d’impresa o in project financing, dovrà prima di tutto liquidare gli anticipi che i veronesi hanno pagato in questi anni per le varie ristrutturazioni del Bentegodi; riservando a ciascun veronese il mezzo milione di lire già sborsato.

In secondo luogo e questo è un aspetto ancora poco affrontato, sarà necessario che chi interverrà nella costruzione del nuovo stadio, sarà tenuto a pagare, a tutti i veronesi, gli oneri per la mancata tutela della loro salute, ma anche la svalorizzazione delle loro proprietà immobiliari, nel caso specifico che l’opera fosse realizzata nel parco della Spianà; area essenziale per il valore urbanistico di Verona nei prossimi anni.

Queste possono essere delle coordinate appropriate per affrontare in modo adeguato la questione; altre valutazione trovano il tempo che trovano, visto che scivolerebbero sul vantaggio del privato, anziché della collettività.

Infatti se venissero adottate queste valutazioni/misurazioni, non ci sarebbe nessuno in giro disposto a fare il Bentegodi Quattro. Mentre invece viene il sospetto che le categorie imprenditoriali disponibili a queste iniziative, lo siano solo perché gli oneri sono a carico della collettività, mentre i guadagni vanno nelle loro tasche.

Verona, 16/2/09 Claudio Magagna – federazione Verdi Verona

G8 della Maddalena

G8 della Maddalena: l´Ue "avverte" l´Italia per la Via Ieri la Commissione europea ha deciso di inviare all´Italia un ultimo avvertimento scritto per l´adozione di una legge (ordinanza) in contrasto con le norme comunitarie che impongono di eseguire valutazioni dell´impatto ambientale per determinati progetti.
L´ordinanza del governo Berlusconi istituisce un regime giuridico semplificato per le opere connesse alla riunione dei capi di Stato del G8 che si terrà sull´isola sarda della Maddalena e per quelle riguardanti le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell´unità d´Italia nel 2011. «L´ordinanza prevede, in particolare - scrive l´Ue - la possibilità di dare inizio ai lavori prima del completamento delle procedure di valutazione dell´impatto ambientale. In base alla normativa comunitaria, gli Stati membri devono provvedere affinché l´autorizzazione di progetti con un potenziale impatto significativo sull´ambiente e l´inizio dei lavori ad essi connessi siano subordinati a una valutazione dell´impatto ambientale. Una lettera di costituzione in mora è stata trasmessa alle autorità italiane nel giugno 2008. Essendo il regime giuridico istituito dall´ordinanza tuttora in contrasto con la pertinente normativa Ue ed essendo stato dato inizio ai lavori sull´isola della Maddalena prima del completamento delle procedure di valutazione dell´impatto ambientale, la Commissione si appresta ad inviare all´Italia un parere motivato».
Secondo Monica Frassoni, presidente dei Verdi/Ale al Parlamento europeo, «La decisione della Commissione di inviare un secondo richiamo all´Italia si basa sul ricorso presentato nel marzo 2008 dalle associazioni ecologiste Amici della Terra e Gruppo d´Intervento Giuridico, e sostenute da due mie interrogazione alla Commissione Ue. In tutti questi mesi il governo italiano tramite, il dipartimento della protezione civile, ha trattato con sdegno i nostri ripetuti appelli per applicare correttamente la legislazione europea in campo ambientale nelle procedure connesse a quello che dovrebbe essere la vetrina delle capacità organizzative italiane. Incredibilmente il Dipartimento di protezione civile è giunto ad affermare che la Commissione europea aveva comunicato ufficialmente la piena regolarità dei lavori.
Preoccupa quindi che non solo siano stati avviati degli imponenti lavori in un luogo unico e prezioso per bellezza e ricchezza naturalistica senza un´adeguata valutazione degli impatti ambientali, ma che il governo italiano non sia neanche in grado di capire se la Commissione stia proseguendo una procedura d´infrazione o meno. In conclusione se l´Italia vuole svolgere un ruolo di primo piano sulla scena mondiale farebbe bene ad applicare le normative e a tener in maggior conto le istituzioni europee. Spero che gli elettori si ricordino al momento del voto di giugno, per il rinnovo del Parlamento europeo, che si tratta di un luogo di importanti decisioni in cui i politici al tramonto e i personaggi dello spettacolo non hanno ragion d´essere». (Greenreport)

SENZA NUMERI NON C'E' FEDERALISMO

di Maria Flavia Ambrosanio e Massimo Bordignon
Le norme sul federalismo fiscale sono assai complesse e non sarà facile attuarle. Ma se si vuole davvero mettere su un binario corretto il dibattito, la prima cosa da fare è predisporre un quadro di riferimento quantitativo condiviso dei dati disponibili. Bisogna costruire al più presto un sistema informativo appropriato sui dati territoriali, che consenta di raccordare le informazioni che arrivano dalle diverse fonti, spesso contraddittorie tra di loro. Un'operazione di questo tipo accelererebbe l'avvio del federalismo molto più di qualunque legge delega.
Ora che la legge delega sul federalismo fiscale sta per essere definitivamente approvata alla Camera si tratterà di attuarla, con la predisposizione dei relativi decreti legislativi da parte del governo. Non sarà una partita facile, vista l’incredibile complessità della legge e la lunga lista di principi attuativi, trentuno, nella bozza licenziata dalle commissioni referenti all’aula, oggettivamente contradditori tra di loro. Anche per questo, la maggior parte del dibattito sul tema appare francamente stucchevole, perché priva di contenuti concreti.
UN PROBLEMA DI FEDERALISMO CONTABILE
Ma la complessità della legge non è l’unica difficoltà con cui si confronterà il governo. L’attuazione della delega presuppone l’esistenza di informazioni dettagliate e precise sul mondo dei governi locali, i loro sistemi tributari, la struttura e la composizione della loro spesa e così via. Tuttavia, le informazioni disponibili e il livello di trasparenza dei bilanci locali sono lontanissimi da quello che sarebbe necessario per effettuare i conti con precisione. Tant’è che uno dei principi fondamentali della legge delega richiede appunto “l’individuazione dei principi fondamentali dell'armonizzazione dei bilanci pubblici, in modo da assicurare la redazione dei bilanci di comuni, province, città metropolitane e regioni in base a criteri predefiniti e uniformi”. Ottima idea, ma ci vorrà del tempo per attuarla. La realtà attuale è che il bilancio dello Stato e quello di regioni e enti locali sono entità sostanzialmente non comunicanti; che le regioni applicano una sorta di “federalismo contabile”, allocando in modo difforme le stesse poste, a partire dalle entrate; e che infine i bilanci di comuni e province sono largamente privi di significato, per l’ampia “esternalizzazione” di funzioni pubbliche fuori bilancio ad agenzie e società formalmente private ma sotto il controllo pubblico, in larga misura una conseguenza dei patti di stabilità interna. Un’operazione di pulizia e di consolidamento dei bilanci di regioni e altri enti locali è assolutamente necessaria se si vuole davvero riportare su basi più razionali la finanza locale.Né la situazione è migliore per quello che riguarda le informazioni relative all’allocazione di spese ed entrate nei vari territori da parte dei vari enti appartenenti al settore pubblico. Negli ultimi anni, non c’è ufficio studi o partito politico che non si sia dilettato nella predisposizione di stime relative alla distribuzione territoriale delle risorse e agli effetti che su questa avrebbe il federalismo fiscale.
FARE I CONTI CON I CPT È UN ERRORE
Abbondano in particolare le stime dei cosiddetti “residui fiscali”, la differenza tra ciò che i cittadini di una regione pagano sotto forma di imposte e contributi ai vari livelli di governo e ciò che da questi ricevono sotto forma di spesa pubblica. I grandi quotidiani nazionali hanno spesso dato risalto a questi “numeri”, senza entrare nel merito della metodologia di calcolo né dei problemi che questo comporta. La conseguenza è che ne è stato fatto un uso distorto e scorretto.Ad esempio, un elemento che accomuna la gran parte di questi calcoli recenti è l’utilizzo della stessa fonte statistica, ovvero i Cpt, conti pubblici territoriali, una banca dati predisposta dal dipartimento per le Politiche di sviluppo, con l’obiettivo di ricostruire i flussi finanziari all’interno dei diversi territori regionali, suddividendo la spesa per categorie economiche e funzionali e per i vari enti presenti sui singoli territori regionali (stato, amministrazioni regionali, amministrazione regionali). Operazione meritoria, ma ancora molto lontana dal fornire un adeguato punto di riferimento per valutazioni corrette sulla direzione e l’entità della redistribuzione territoriale, come esplicitamente riconosciuto dagli stessi estensori. Usare i Cpt, senza capirne i limiti, significa produrre risultati del tutto inappropriati. Solo qualche esempio per spiegare i problemi anche ai non addetti ai lavori.Primo, i Cpt eliminano alcune spese: ad esempio, gli interessi sul debito pubblico pagati ai non residenti o i flussi verso l’estero, perché non saprebbero dove allocarli sul territorio nazionale. E gonfiano alcune entrate: considerano le entrate tributarie al lordo e non al netto dei rimborsi d’imposta, non correggendo adeguatamente il dato sul lato della spesa, con il risultato che se si usassero i Cpt per calcolare il saldo netto per le amministrazioni pubbliche scopriremmo di aver già risolto tutti i problemi finanziari del paese, visto che saremmo già abbondantemente in attivo. Secondo, i Cpt forniscono solo dati di cassa, non di competenza. Il problema è che i dati di cassa variano enormemente da anno a anno sul lato delle entrate e che sono inaffidabili per i periodi brevi soprattutto per la spesa in conto capitale, perché questa ha un andamento fortemente ciclico.Terzo, le entrate tributarie regionali e locali non sono disaggregate, così che non è possibile capire chi paga a chi quali tributi in quale regione, e confrontare le stime nei Cpt con le informazioni disponibili da altre fonti. E si potrebbe continuare a lungo.La conclusione è che se si vuole davvero mettere su un binario corretto il dibattito sul federalismo fiscale è in primo luogo necessario predisporre un quadro di riferimento quantitativo condiviso dei dati disponibili. Ènecessario in altri termini che si avvii al più presto la costruzione, da parte di tecnici e accademici, di un sistema informativo appropriato sui dati territoriali, che consenta di raccordare le informazioni provenienti dalle diverse fonti, Istat, ministeri, Ragioneria, e così via, spesso tra di loro contraddittorie. Un’operazione di questo tipo farebbe fare più passi avanti al federalismo fiscale di una dozzina di leggi delega.

domenica

Il taglio degli alberi in via Camuzzoni, ennesimo atto contro il patrimonio verde di Verona

Ai Verdi sono arrivate parecchie segnalazioni. L’ultimo taglio di alberi in via Camuzzoni, che si sta svolgendo in questi giorni, ufficialmente per la sola “potatura”, ma in realtà una vera e propria eliminazione, ha sollevato molti malumori tra i cittadini veronese, coinvolgendo gli ambientalisti nell’ennesima richiesta di intervento per bloccare l’azione.
Chi vive nella zona afferma che nessuna pianta era malata, tanto che c’è la disponibilità a fornire le foto dell’estate scorsa, che metterebbero in luce la rigogliosità delle fronde.
Claudio Magagna, dei Verdi veronesi, è smarrito e contrariato per l’ennesimo accanimento contro gli spazi alberati. “Poche settimane fa piazza Pradaval, per la sua riqualificazione, ora i quaranta alberi di via Camuzzoni, quale sarà il prossimo intervento di abbattimento ? C’è un dato preciso dell’azione amministrativa della giunta Tosi – insiste l’ambientalista – ed è una fobia verso gli alberi: ad ogni cantiere che viene aperto, si approfitta per farne fuori una qualche decina. Di questo passo al termine dei cinque anni di mandato, Tosi avrà sottratto alla città centinaia, se non migliaia di essenze arboree”.
Magagna non ha dubbi, il prossimo azzeramento verrà fatto negli spazi delle ex cartiere, togliendo la vasta area boscata, per far posto ai due grattacieli.
I Verdi sono preoccupati per questa inclinazione dell’attuale Giunta comunale a togliere alberi alla città.
Si rivolgono perciò alle forze politiche in Consiglio comunale affinché prendano coscienza del valore della presenza dell’essenze arboree a Verona e predispongano atti consoni a far cessare questa vandalizzazione sulle piante.
Gli stessi cittadini sono invitati ad adoperarsi per segnalare qualsiasi iniziativa contro gli alberi, seppure modesta; “vogliamo che l’opinione pubblica abbia una chiara idea della bontà del patrimonio arboreo a Verona”.
“Per anni i Verdi si sono incatenati alle piante per difenderle, ma ora siamo nel 2009, – incalza Magagna – gli amministratori dovrebbero mettere in mostra maggiore sensibilità verso queste ricchezze naturali; escludendo anche il pretesto per queste forme di protesta”.
Precisano, i Verdi, che la piantumazione e le aree boscate sono salvaguardate da specifiche normative nazionali e regionali, sono parte essenziale del paesaggio, aiutano a ridurre l’inquinamento e in generale tutelano la salute, da sempre.
Ricordano anche che il progressivo accanimento contro gli alberi, molto spesso strumentalmente supportato da motivazioni legate al fatto che siano ammalati, fa reagire i cittadini e diventa controproducente in termini politici, fa perdere consensi.
A riguardo emerge anche un dubbio di strumentalizzazione: “Il caso dei giardini Lombroso, durante il mandato del sindaco Zanotto, aveva impegnato esponenti locali di rilievo di Alleanza Nazionale contro alcuni abbattimenti. Dove sono ora questi paladini, allora così determinati a sostegno del verde ?”.


Verona, 13/2/09 Claudio Magagna – federazione Verdi Verona