venerdì

La riconversione della centrale Enel. L'iter frenato dal rischio di aumento delle emissioni tossiche Su Porto Tolle resta il no dell'Ambiente

Non è per problemi procedurali, o per ritardi nell'esame tecnico, che la Commissione Via non ha ancora emanato il parere sulla compatibilità ambientale della centrale Enel di Porto Tolle (Rovigo), il maxiprogetto da due miliardi di euro per la riconversione dell'attuale centrale termoelettrica che attende l'autorizzazione dal ministero dell'Ambiente dalla metà del 2005.1 nodi sono di merito, di impatto sulle emissioni di polveri sottili e di Co2, tali da far prevedere una relazione tecnica degli uffici del Ministero negativa o fortemente prescrittiva sul progetto dell'Enel. A quel punto, allora, la decisione del Governo sarà s quisitamente politica, si dovrà cioè decidere di dare il via libera alla riconversione della centrale perché i benefici in termini di volume di investimento e di apporto all'autosufficienza energetica del Paese sono ritenuti superiori all'impatto ambientale, seppure quest'ultimo sia comunque rilevante. Venerdì il Consiglio dei ministri ha invitato il ministero dell'Ambiente, guidato da Stefania Prestigiacomo, ad esprimere la propria valutazione entro 20 giorni, decorsi i quali sarà lo stesso Consiglio dei ministri a prendere una decisione. La procedura è quella dell'articolo 6 comma 5 della legge 349/1986: «Ove il ministro competente alla realizzazione dell'opera non ritenga di uniformarsi alla valutazione del ministero dell'Ambiente, la questione è rimessa al Consiglio dei ministri». Il Governo, dunque, per sbloccare l'iter ha prima bisogno di una pronuncia da parte dell'Ambiente. La procedura Via è partita nell'estate 2005, ma si è interrotta nell'agosto 2007 con un parere interlocutorio negativo, cioè la richiesta a Enel di integrare pesantemente una documentazione ritenuta carente. Le nuove carte so no arrivate a dicembre 2007, l'iter è ripartito il 6 febbraio 2008, poi rallentato dall'avvio della nuova commissione e poi dal cambio di Governo. Ma nonostante la Commissione Prestigiacomo, nominata nel luglio scorso, abbia prodotto 78 pareri Via in cinque mesi (istruttoria e verifica di esclusione), un record di 15,6 pareri al mese, tre volte le medie precedenti, la procedura su Porto Tolle non è arrivata al dunque. Nei mesi scorsi, fra l'altro, alla Commissione Via è arrivata una perizia preparata dalla Procura della Repubblica di Rovigo, che ritiene «ampiamente superiori rispetto alle previsioni dell'Enel» le emissioni di polveri fini e ultrafìni, e di altri fumi tossici, della nuova centrale. Questo parere non ha alcuna incidenza sostanziale sulla procedura Via, ma anche i tecnici del ministero dell'Ambiente, a cui spetterà ora curare una veloce istruttoria tecnica per il ministro Prestigiacomo, da portare in Consiglio dei ministri, ritengono che la nuova centrale a carbone produrrà un forte aumento di emissioni di azoto e polveri sottili, oltreché di anidride carbonica, rispetto alla centrale esistente. Per lo sforamento dei limiti sulle polveri sottili l'Italia è già in procedura di infrazione UE, e il via libera alla centrale a carbone potrebbe creare secondo l'Ambiente una sonora bocciatura europea. Diffìcile anche l'aumento di Co2, in contrasto con l'accordo europeo per la riduzione del 20% delle emissioni in atmosfera. Insomma, il ministero dell'Ambiente vorrebbe che emergesse in Consiglio dei ministri la consapevolezza che il progetto ha un elevato impatto ambientale, e che dunque da una parte sia chiaro che la decisione è politica, ma dall'altra che, a fronte anche dei risparmi che avrà Enel, questo possa giustificare la richiesta all'azienda di compensazioni ambientali "forti" tali da ridurre in altro mndn le maggiori emissioni che l'impianto crea. Ad esempio con un fondo che finanzi il risparmio energetico negli edifici. L'Enel non nega che con l'energia a carbone costi meno («il 30-40% di risparmio - spiegano all'ufficio stampa - per produrre ogni kilowattore, rispetto al gas»), né che la riconversione della centrale di Porto Tolle comporterà maggiori emissioni di Co2; «Non ci saranno invece - aggiungono - maggiori emissioni, rispetto a oggi, di polveri sottili e altri inquinanti locali». (Il Sole 24 Ore)

Nucleare: Mezzetti sull'atensione del Pd Toscana sulla mozione no nucleare

NUCLEARE ASTENSIONE GRUPPO PD CONSIGLIO REGIONE TOSCANA A MOZIONE SINISTRA DICHIARAZIONE DI MASSIMO MEZZETTI
Resp.le Nazionale Enti Locali Sinistra Democratica
…questo Pd è ormai in stato confusionale …in Emilia vota a favore, in Toscana permette alla destra di bocciare il no a nuove centrali nucleari….
L'astensione del gruppo PD al Consiglio Regionale della Toscana sulla mozione che prevedeva l'indisponibilità del territorio regionale per l'attivazione di centrali nucleari come presumibilmente previsto dal piano del governo Berlusconi – astensione che ne ha provocato la bocciatura – risulta grave ed inspiegabile. Ed è l'ennesima manifestazione dello stato confusionale che ormai regna sovrano in quel partito.
Lo afferma Massimo Mezzetti, della segreteria nazionale e responsabile Enti Locali di Sinistra Democratica. Solo poche settimane fa – prosegue l'esponente SD – un identico testo proposto al Consiglio Regionale dell'Emilia Romagna da SD è stato alla base di una risoluzione condivisa da tutte le forze del centrosinistra al governo della regione, Pd compreso. L'ambiguità e la doppiezza che su molte questioni sta assumendo il PD rischia di diventare imbarazzante, oltre che per gli elettori di quello stesso partito, anche per le forze politiche che con esso intendono costruire accordi per le prossime elezioni amministrative.
Roma, 14 gennaio 2009

Naomi Klein: "Perchè io boicotto"

"La strategia più efficace per fermare un'occupazione sempre più sanguinosa è far sì che Israele diventi il bersaglio della stessa specie di movimento globale che fermò l'apartheid in Sudafrica". Lo scrive Naomi Klein su The Nation
(http://www.thenation.com/doc/20090126/klein?rel=hp_currently) ricordando come alcuni gruppi palestinesi da anni chiedono di condurre iniziative di boicottaggio e di disinvestimento contro Israele, simili a quelle che furono applicate al Sudafrica negli anni dell'apartheid. (http://www.bdsmovement.net//). L'intervento della Klein arriva mentre qui da noi le polemiche, gli imbarazzi, la confusione tra antisemitismo, antisionismo, critica al governo di Israele, si uniscono alla preoccupante difficoltà della sinistra di mobilitarsi contro il massacro a Gaza.
Alla causa del boicottaggio economico contro Israele – ricorda Klein – hanno aderito in questi giorni circa 500 artisti e studiosi israeliani. Questi "hanno inviato una lettera agli ambasciatori stranieri chiedendo di sollecitare ai loro governi misure restrittive e sanzioni". "Il boicottaggio al Sudafrica – continua citando la lettera – fu effettivo. Ma Israele viene trattato coi guanti bianchi. Questo sostegno internazionale deve cessare". "Molti di noi – riflette ancora Klein – non riescono ancora ad abbracciare questa causa. Le ragioni sono complesse, emotive e comprensibili. Ma semplicemente non valgono abbastanza. Le sanzioni economiche sono l'arma più efficace nell'arsenale della non violenza". Naomi Klein passa poi ad analizzare e a confutare quattro obiezioni possibile al boicottaggio economico di Israele. La prima: "Le misure punitive allontanerebbero invece che persuadere Israele". L'"impegno costruttivo" che il mondo adotta nei confronti di Israele – osserva qui la Klein – è tragicamente fallito". Infatti nell'ultimo periodo "Israele ha goduto di una forte crescita delle sue relazioni diplomatiche, culturali e commerciali con una varietà di alleati". "E' in questo contesto che i leader israeliani hanno iniziato la loro ultima guerra, con la certezza che non avrebbero dovuto affrontare significative reazioni." Seconda obiezione: "Israele non è il Sudafrica". Naomi Klein cita a questo proposito il parere di Ronnie Kastrils, un politico sudafricano. Questi ha osservato che "l'architettura di segregazione vista all'opera nella West Bank e a Gaza è infinitamente peggiore di quella dell'apartheid". "Il boicottaggio – aggiunge l'autrice canadese – non è un dogma, è una tattica: in un paese così piccolo e così dipendente dal commercio può funzionare". Terza obiezione: "Il boicottaggio restringerebbe la comunicazione e noi abbiamo bisogno di più dialogo". Naomi Klein cita a questo proposito un'esperienza personale: racconta di aver smesso di pubblicare i suoi libri in Israele con la casa editrice Babel e di aver scelto al suo posto la più piccola e indipendente Andalus, "una casa editrice militante, profondamente convolta nel movimento contro l'occupazione, la sola casa editrice israeliana che traduce testi arabi in ebraico. "Il nostro piccolo piano di pubblicazione – racconta ancora Klein – ha richiesto decine di telefonate, scambi di email e sms tra Tel Aviv, Ramallah, Toronto, Parigi e Gaza City. Voglio dire, appena inizia una strategia di boicottaggio il dialogo cresce in maniera fortissima. L'argomento secondo il quale il boicottaggio produce una separazione è specioso data la disponibilità di tecnologia a basso costo che abbiamo tra le mani".
L'ultima obiezione analizzata da Naomi Klein è questa: "Non sapete che molti di questi giocattoli tecnologici provengono proprio dai centri di ricerca israeliani, all'avanguardia mondiale dell'informatica"? La Klein, a questo proposito, cita il caso di Richard Ramsey, responsabile di una compagnia inglese specializzata in tecnologia per internet. Dopo l'inizio dell'assalto a Gaza, Ramsey ha rotto i rapporti con la compagnia israeliana MobileMax con questa email: "A causa dell'azione del governo israeliano degli ultimi giorni non ci riteniamo più nella posizione di fare affari con voi né con nessuna altra compagnia israeliana". "Ramsey – spiega la Klein – ha dichiarato che la sua non è stata una decisione politica; semplicemente non voleva rischiare di perdere clienti". E conclude Klein :"E' stata questa sorta di freddo calcolo affaristico che ha portato molte industrie a rompere i rapporti con Sudafrica, vent'anni fa. E precisamente questo calcolo rappresenta la nostra più realistica speranza di rendere alla Palestina quella giustizia che le è stata così lungamente negata". Fonte: http://www.ilmanifesto.it/

Come si riconosce il codice a barre 729
La lista dei prodotti da boicottare
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=23648

mercoledì

IL DIRITTO ALL'ACQUA NELL'ERA DELLA PRIVATIZZAZIONE

Il Comune di Povegliano Veronese
vi invita al Convegno
IL DIRITTO ALL'ACQUA NELL'ERA DELLA PRIVATIZZAZIONE
come garantire un servizio idrico pubblico e partecipato
Martedì 20 gennaio 2009 ore 20.30 Sala Conferenze Villa Balladoro via Balladoro n. 15
PROGRAMMA
Anna Maria Bigon, Sindaco di Povegliano Veronese:
perché parlare di diritto all'acqua, il ruolo degli amministratori locali
Rosario Lembo, Segretario Comitato Italiano per il Contratto mondiale sull'acqua: il servizio idrico prima e dopo la legge Galli: quali prospettive per una gestione pubblica alla luce delle nuove disposizioni di legge
Giovanni Cocciro, Assessore alla Cultura, alla Pace e all'Educazione
Ambientale di Cologno Monzese:
l'esperienza dei sindaci lombardi per la ripubblicizzazione del servizio idrico e la proposta di un coordinamento degli enti locali per l'acqua pubblica
Luciano Franchini, Direttore AATO Veronese: l'organizzazione del servizio idrico integrato nella Provincia di Verona
Matteo Gaddi, Attac Italia: una proposta concreta per la gestione pubblica dell'acqua: l'azienda speciale Luca Cecchi, Comitato Provinciale Acqua Bene Comune: la partecipazione dei cittadini nel governo del servizio idrico
Organizzato in collaborazione con:
Comitato provinciale "Acqua bene comune" e Coordinamento Provinciale Veronese Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani
PERCHÉ UN CONVEGNO SUL SERVIZIO IDRICO
Con l'articolo 23bis della legge 133/2008 entro il 31 dicembre 2010 il servizio idrico dovrà essere privatizzato.
Se l'acqua è indispensabile alla vita ed è un diritto di tutti, è giusto permettere che imprese private (potenzialmente anche multinazionali estere) o società anche pubbliche, guadagnino attraverso la sua gestione?
Poco o nulla rileva la natura giuridica pubblica delle acque se il soggetto che gestisce tali risorse persegue espressamente finalità di profitto. Quali alternative hanno gli enti locali per poter mantenere un servizio pubblico e locale? Che senso ha parlare di federalismo quando i beni comuni fondamentali del territorio vengono privatizzati?
Quali conseguenze può comportare per i cittadini la possibile privatizzazione anche alla luce di esperienze già avvenute in vari comuni italiani?
Il convegno vuole essere un momento di confronto sulle possibili strade da percorrere perché l'acqua sia gestita da un servizio pubblico, trasparente e partecipato, privo di rilevanza economica.

martedì

Dal carcere alla "Casa di custodia"

DIEGO NOVELLI*
L’intervista con l’avvocato Niccolò Ghedini sulla Stampa di ieri («Carceri meno dure in attesa di giudizio») mi induce a ricordare che negli Anni 80 un gruppo di operatori sociali del Comune di Torino con volontari della San Vincenzo, operanti nella casa circondariale, presentarono uno studio che consentiva in 6-7 mesi di alleggerire di circa 300 unità la popolazione delle carceri torinesi. Una commissione insediata dal Comune, formata da architetti, sociologi, giuristi e operatori sociali metteva a punto un progetto esecutivo sia per la parte edilizia, sia per le modifiche riguardanti i codici, con dettagliato esame dei costi di realizzazione e di gestione.
Si trattava di realizzare in città dieci Case di custodia (una per circoscrizione) con 30-40 posti letto. La scelta degli edifici riguardava case pubbliche e private da ristrutturare o già costruite ma ancora sfitte o invendute. Con poche modifiche interne si realizzavano camere (due-tre letti) e servizi collettivi (mensa, palestra, sala di svago, servizi igienici, cucina).
Le misure di sicurezza erano minori che in un normale carcere, con una drastica riduzione dei costi. Anche per il personale di servizio (o di custodia) il numero veniva ridottissimo rispetto all’attuale rapporto agenti-detenuti, utilizzando cooperative del volontariato. Nel progetto, elaborato da avvocati e magistrati, venivano individuati i «clienti» di queste nuove «Case di custodia per detenuti a rischio attenuato»: in attesa di giudizio per reati minori o a fine pena, con comportamenti durante la detenzione rassicuranti secondo i giudici di sorveglianza. In questo modo si eliminava la piaga della promiscuità, che vede un cittadino incappato in un guaio giudiziario di lieve entità stipato in una cella di mafiosi o d’incalliti criminali. Questo progetto venne dal Comune presentato al ministero della Giustizia, raccogliendo il consenso entusiastico dei ministri Martinazzoli e Vassalli, e il sostegno del direttore degli Istituti di prevenzione e pena dell’epoca, Niccolò Amato.Scaduta l’amministrazione comunale di sinistra non se ne fece più niente. Parecchi anni dopo, durante una visita a Torino, a seguito di un incendio nel nuovo carcere delle Vallette sovraffollato (morirono alcune donne), il ministro della Giustizia Biondi si dichiarò d’accordo per rispolverare quel progetto, impegno che ribadì alla Camera. L’ultima volta che ho sentito parlare della proposta delle «Case di custodia per reati a rischio attenuato» in termini positivi fu tre anni fa durante un convegno a Roma, che trattava delle condizioni disumane delle carceri italiane. Era presente il sottosegretario alla Giustizia Manconi del governo Prodi. Poi tutto tacque.Salta fuori Alfano con la proposta della «messa in prova», che eviterebbe il carcere per reati che prevedono una pena sino a 4 anni. Il professor Grosso ne ha scritto su La Stampa invitando il ministro (bloccato da Lega e An) a soprassedere.
Alfano in più parla di revisione della legge Gozzini perché troppo «premiale» per i detenuti. Non sa che grazie alla Gozzini non ci sono più state rivolte nelle carceri negli ultimi 20 anni. Questa legge ha un effetto deterrente sulla popolazione carceraria perché in casi di disordini saltano i permessi e le licenze. Le carceri non possono essere considerate terra di nessuno, avulsa dalla città. Anche i sindaci, che hanno avuto un’ora di celebrità con bizzarre misure di sicurezza concesse dal ministro Maroni, non possono dimenticare che dietro i muraglioni delle carceri vivono delle persone, che se anche hanno sbagliato, non possono essere considerate peggio degli animali. La cultura di rinchiudere chi sgarra e di buttar via la chiave non appartiene a una società civile.
* già sindaco di Torino